Nuovo Dl, stop un mese all’impresa che non chiude

Imprese ed esercizi commerciali che non rispetteranno gli obblighi di chiusura imposti dai decreti di Palazzo Chigi per contenere la diffusione del Coronavirus si vedranno imporre uno stop dell’attività fino a 30 giorni. E chi verrà colto a violare le altre misure di distanziamento sociale, per esempio uscendo di casa senza poter documentare una delle tre ragioni che lo permettono (lavoro, salute o esigenze indifferibili tipo spesa) incapperà in una multa da 400 a 3mila euro, che diventano 6mila per i recidivi. Importi a cui si applica lo sconto del 30% per chi paga in fretta. Salta invece dal testo finale la previsione del fermo amministrativo dell’auto; ma curiosamente le violazioni commesse in auto comportano l’aumento di un terzo della sanzione: i 400 euro, in pratica, diventano 533, e i 3mila diventano 4mila.

Ma dalle nuove sanzioni, scritte nel decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri per costruire la “legge quadro” sulle misure di emergenza, arriva anche una buona notizia per i 100mila denunciati nei giorni scorsi dalle Forze dell’ordine perché fermati in strada in violazione delle regole: la depenalizzazione di fatto decisa con il decreto legge fa cadere le accuse penali nei loro confronti, che poggiavano sull’articolo 650 del Codice che prevede la reclusione fino a 3 mesi o l’ammenda fino a 206 euro per chi viene giudicato colpevole di «inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità». Sul piano economico, insomma, il colpo previsto per chi aggira i limiti emergenziali alla libertà di movimento si indurisce parecchio. Ma cade la prospettiva di essere messi a processo e di vedersi macchiare la fedina penale. Su questo terreno continua a muoversi solo chi viola l’obbligo di restare in casa perché risultato positivo al tampone del Covid-19: per loro c’ è la reclusione da uno a 5 anni previsto dall’articolo 452 del Codice penale per i delitti colposi contro la salute pubblica.

Sanzioni e quadro ordinamentale sono appunto i due compiti fondamentali assegnati al nuovo decreto, atteso sulla Gazzetta Ufficiale fino a tarda notte, che come anticipato ieri su queste pagine nasce anche per superare le incognite prodotte dagli incroci multipli con le ordinanze regionali.

In pratica, il decreto costruisce un’architettura normativa che prova a evitare il caos prodotto dal meccanismo basato sugli annunci e sui successivi provvedimenti di Palazzo Chigi. E coinvolge governo e Parlamento nella gestione di fondo dell’emergenza, andando incontro anche alle sollecitazioni del Quirinale. «Con questo decreto abbiamo regolamentato in modo più trasparente i rapporti con il Pralamento, prevedendo – ha detto ieri Giuseppe Conte – che ogni iniziativa sia trasmessa ai presidenti delle Camere e che il Governo vada a riferire ogni 15 giorni». Per questa ragione il decreto mette in fila 29 possibili misure di contenimento, dalla circolazione delle persone alla chiusura di imprese ed esercizi commerciali, dalla limitazione degli eventi agli obblighi di ridurre al minimo il personale presente negli uffici pubblici, che tocca poi ai decreti di Palazzo Chigi definire nell’applicazione.

Questa architettura, specifica il decreto, che potrà rimanere in piedi fino al 31 luglio, ma al momento la data si spiega semplicemente con la durata semestrale dello stato di emergenza partito a fine gennaio. Il compito di far rispettare le regole è affidato ai Prefetti, che oltre alla Polizia potranno far ricorso alle Forze Armate ai cui componenti viene attribuita la qualifica di agenti di pubblica sicurezza.

ACCORDO TRA MAGGIORANZA ED OPPOSIZIONE :

Informativa alle Camere ogni 15 giorni

Durata di 30 giorni per i provvedimenti

Niente verifica sulle ordinanze

La competenza delle misure anticontagio restrittive è dello Stato. Le Regioni possono adottarle a patto che le decisioni rientrino nelle «attività di loro competenza»: I Comuni nelle loro decisioni non possono andare in contrasto con le norme statali.

Ancora impasse Stato-Regioni Salta la verifica sulle ordinanze

Il tentativo di mettere ordine alla maionese impazzita dei rapporti fra Stato ed enti locali nella gestione dell’emergenza sanitaria ha complicato parecchio la nascita del nuovo decreto legge quadro sulle misure di contenimento del contagio. Al punto che i tecnici di Palazzo Chigi hanno dovuto lavorare al testo per molte ore dopo la chiusura del consiglio dei ministri e la conferenza stampa in cui il premier Conte ha illustrato le nuove misure. E il lavoro è sfociato in una norma di poche righe, che butta al macero il meccanismo complesso finito nel pomeriggio sul tavolo del consiglio dei ministri. «Collaboriamo con le Regioni e questa modalità sta dando risultati», ha sostenuto Conte parlando in videoconferenza con i giornalisti: «un intervento autoritativo dello Stato centrale non è pensabile – ha aggiunto -, anche perché le Regioni hanno un patrimonio informativo che non possiamo avere a livello centrale».

Il principio è chiaro. Ma la sua traduzione pratica si è rivelata decisamente è più complicata. Al punto che, alla fine, ci si è dovuti accontentare di una norma di principio che permette alle Regioni di emettere ordinanze solo «nell’ambito delle attività di loro competenza», e ai sindaci torna a vietare di andare con le loro decisioni «in contrasto con le misure statali». Nulla di diverso, in verità, da quanto già previsto dall’ordinamento.

Perché il meccanismo individuato dalle prime bozze del decreto sarebbe stato decisamente più complesso. E prevedeva la verifica statale sulle ordinanze territoriali che, una volta superato l’esame, sarebbero state da confermare tramite decreto di Palazzo Chigi. A pena di decadenza.

In pratica, anche le Regioni avrebbero dovuto pescare dal ventaglio delle 29 misure di contenimento individuate dal nuovo decreto legge. La decisione locale avrebbe avuto una validità a tempo, sette giorni, e sarebbe stata comunicata sotto forma di proposta a Palazzo Chigi entro 24 ore dall’adozione. Entro i sette giorni, la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto confermare le misure inserendole in un Dpcm. In caso di mancata conferma, l’ordinanza locale sarebbe decaduta da sola scaduto il termine dei sette giorni.

Come si vede, un meccanismo del genere avrebbe rischiato di inciampare parecchio sul piano pratico e su quello ordinamentale, perché le competenze delle Regioni in materia sanitaria sono forti e il terreno delle decisioni prese per la tutela della «salute pubblica» è delicato. Questo tentativo di armonizzazione è arrivato inoltre in una fase in cui i rapporti fra Roma e i presidenti di Regione sono concitati per una miscela di fattori che vanno dalla tensione per l’emergenza alla concorrenza politica, in particolare nel Nord a trazione leghista dove il quadro sanitario è più complicato. Come mostrano bene le cronache dell’ultimo fine settimana che hanno visto l’accelerazione delle ordinanze di Piemonte e Lombardia e Palazzo Chigi in rincorsa con le comunicazioni a tarda sera del premier Conte e il testo del decreto di Palazzo Chigi arrivato solo 24 ore dopo. Ad arricchire ulteriormente il quadro ci sono poi i sindaci. Con loro in realtà i rapporti del governo sono nel complesso più semplici. Il presidente dell’Anci Antonio Decaro, anzi, era stato il primo a chiedere la sospensione del potere di ordinanza dei sindaci per evitare il caos (richiesta accolta dal governo qualche settimana fa con una prima norma dalla scarsa fortuna applicativa) e ieri è stato tra i primi ad applaudire l’arrivo di sanzioni più severe per chi viola le misure di distanziamento sociale.

Ma anche su questo aspetto il mondo dei Comuni è variegato, come dimostra per esempio il caos sullo stretto di Messina con il sindaco in prima fila nel tentativo di fermare gli arrivi dalla Calabria. Il decreto esaminato ieri dal governo pensa anche a loro, ma si limita a tornare a chiedere di non emettere ordinanze «in contrato con le norme nazionali».

FONTE : IL SOLE 24 ORE

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