
«Consentiteci di lavorare, vorremmo potenziare ancora di più questo intervento». Quello lanciato dal premier Conte al Senato prima di un’altra giornata complicata nel confronto europeo suona come un appello. Una chiamata corale, anche alle opposizioni, a lavorare per far crescere un nuovo decreto anticrisi che per il governo non potrà valere meno di 25 miliardi. Ma che Palazzo Chigi vorrebbe appunto veder salire almeno fino a quota 30. Conti permettendo.
Perché ogni giorno che passa offre elementi nuovi per misurare il peso di una crisi enorme. L’ultimo è arrivato dal documento presentato al Senato dall’Ufficio parlamentare di bilancio.
E dice che la crisi da Coronavirus costa fino a 13,5 miliardi al mese solo per gli ammortizzatori sociali che riguarderebbero 9,3 milioni di lavoratori, il 60% del bacino potenziale. In questo conto, 4,6 miliardi sono legati all’estensione della Cassa integrazione, allargata dal decreto Marzo a tutte le imprese, anche con un solo dipendente, e gli altri 8,9 all’esplosione degli strumenti tradizionali già presenti nell’ordinamento. Questa cifra, relativa a un mese di utilizzo pieno degli ammortizzatori vecchi e nuovi, si confronta con una spesa che in periodi ordinari viaggiava a ritmi inferiori al miliardo all’anno, come mostra l’ultimo dato Istat sulla protezione sociale. Che si riferisce al 2018, un anno buono sul fronte dell’occupazione. In caso di utilizzo parziale, per esempio una cassa per una parte dell’orario, il tempo della spesa si allungherebbe.
Nonostante i numeri enormi, l’Authority dettaglia una prospettiva “prudente”, che distingue i settori più colpiti da quelli risparmiati e ipotizza un ricorso ai nuovi ammortizzatori sociali un po’ più contenuto rispetto a quello indicato dalla relazione tecnica al decreto.
Non solo. Perché l’allargamento degli strumenti di sostegno al reddito è stato imponente, ma fra i 16,6 milioni di lavoratori dipendenti ci sono in base ai calcoli dell’Upb ancora 1,9 milioni di persone lasciate fuori dalle nuove tutele tra lavoratori domestici e saltuari.
In ogni caso, il ritmo di spesa imposto dall’emergenza corre a ritmi serrati, e fa crescere l’urgenza del «recupero di nuove risorse per integrare i tetti di spesa e garantire la prosecuzione delle misure». Misure che servono anche a rallentare un po’ il crollo del Pil, perché dai 25 miliardi del decreto Marzo l’Upb si aspetta un effetto “espansivo” sul Pil di almeno lo 0,5%. Non poco per un solo decreto: pochissimo per una crescita che promette di arretrare di diversi punti percentuali.
Alla corsa delle cifre si accompagna quella necessaria al governo per mettere in campo in tempo utile il nuovo decreto. Già al primo Consiglio dei ministri della prossima settimana potrebbe essere esaminata la relazione da inviare alle Camere per chiedere l’autorizzazione a utilizzare nuovo deficit fra l’1 e l’1,5% del Pil; spingendo il più possibile sul disavanzo si aprirà la strada a misure per non meno di 30 miliardi, con la possibilità di arrivare a 35.
L’accelerazione serve a ottenere in fretta anche il via libera del Parlamento, che deve dare l’ok a maggioranza assoluta dei componenti facendosi largo fra i problemi logistici sollevati dall’emergenza sanitaria. Il punto, come ha ribadito in questi giorni il ministro dell’Economia Gualtieri, è che il nuovo decreto deve entrare in vigore con qualche giorno di anticipo rispetto al 16 aprile, nuova data di scadenze fiscali da sospendere.
Perché a questo punto l’obiettivo prioritario se non unico del provvedimento è quello di allungare il ponte avviato con il decreto Marzo con il sostegno al reddito e le misure per la liquidità, fatte di stop ai versamenti fiscali e aiuti diretti o sotto forma di garanzie pubbliche. E proprio quest’ultima leva dovrebbe essere potenziata ulteriormente dal nuovo decreto. Perché per ragioni a cavallo fra storia e quadro giuridico l’Italia non ha uno strumento completamente libero da vincoli come la Kfw tedesca, e anche le garanzie hanno un costo in termini di finanza pubblica. Ma negli obiettivi del governo c’è comunque «un sostegno alla liquidità basato su garanzie pubbliche che non ha precedenti», come ha voluto chiarire ieri Gualtieri in un comunicato nel quale ha applaudito la richiesta di «cambio di mentalità» lanciata ieri dall’ex presidente della Bce Mario Draghi.
Draghi del resto è stato chiarissimo nel sostenere l’esigenza di «assorbire» la «perdita di reddito sostenuta dal settore privato». Parole rivolte prima di tutto all’Europa, dove continuano le divisioni sugli strumenti.
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