
La Commissione europea ha avvertito ieri che in assenza di una risposta concertata a livello comunitaria la crisi economica provocata dalla pandemia influenzale potrebbe lasciare serissimi strascichi, tra cui «distorsioni gravi» del mercato unico così come «radicate divergenze economiche, finanziarie e sociali tra i Paesi della zona euro». Bruxelles prevede una caduta dell’economia dell’unione monetaria del 7,7% nel 2020 e un rimbalzo del 6,3% nel 2021.
In una conferenza stampa a Bruxelles, il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni ha definito la recessione «la peggiore nella storia dell’Unione». Ha anche precisato che «la gravità della recessione così come la forza della ripresa saranno irregolari», vale a dire differenti da Paese a Paese. «Un piano di rilancio ben coordinato e finanziato rafforzerebbe la nostra risposta comune e mitigherebbe i rischi economici», ha poi aggiunto, riferendosi anche a un eventuale fondo per gli investimenti azionari.
La pandemia influenzale ha congelato l’attività economica nei Paesi dell’Unione europea, obbligati a rispettare un confinamento provante sia da un punto di vista sociale che industriale. L’impatto, secondo Bruxelles, sarà notevole, tanto che l’esecutivo comunitario non si aspetta che l’Unione possa recuperare entro la fine del 2021 la perdita subita in questi mesi. Il crollo dell’economia varia da Paese a Paese: oscilla tra il -4,3% della Polonia e il -9,7% della Grecia.
Secondo le previsioni comunitarie, l’Italia dovrebbe subire un calo del prodotto interno lordo del 9,5% nel 2020, seguito da un rimbalzo del 6,5% l’anno prossimo. La ripresa italiana è migliore della media della zona euro, ma inferiore alle aspettative in Grecia (7,9%), in Francia (7,4%), e in Spagna (7,0%). In Germania l’economia dovrebbe calare del 6,5% per poi rimbalzare del 5,9% l’anno prossimo.
La recessione comporterà un «netto calo dell’inflazione» e un forte aumento del deficit e del debito pubblico. In Italia il disavanzo, sempre secondo Bruxelles, salirà all’11,1% del Pil quest’anno, per poi scendere al 5,6% del Pil l’anno prossimo. Il debito sfiorerà il 159% del Pil nel 2020 (rispetto al 134,8% dell’anno scorso). Il calo nel 2021 sarà limitato: al 153,6% del Pil. Il numero di Paesi della zona euro con un debito superiore al 100% del Pil passerà da tre a sette.
Il rapporto presentato dal commissario Gentiloni contiene un evidente messaggio politico, oltre a una miriade di previsioni e statistiche. L’ncertezza è ritenuta «eccezionalmente elevata». Secondo l’ex premier italiano, la divergenza tra i Paesi nel mercato unico «può essere mitigata da una azione europea che sia decisa e congiunta».
Le nuove previsioni giungono mentre i Ventisette stanno negoziando un volano europeo per il rilancio dell’economia.
Sul tavolo vi è un fondo per la ripresa nel quadro del bilancio comunitario 2021-2027. Intanto, i ministri delle Finanze della zona euro si riuniranno domani per finalizzare l’uso del Meccanismo europeo di Stabilità ai tempi della pandemia influenzale. Il commissario Gentiloni ha confermato che Bruxelles vuole limitare il controllo sull’uso del denaro agli scopi sanitari. Ha anticipato che vi sarà il benestare relativo alla sostenibilità del debito per tutti i Paesi.
In un contesto economico terribile, il fondo per la ripresa potrebbe non essere l’unico strumento per mitigare le divergenze nazionali nel mercato unico, divergenze a cui ha contribuito anche maggiore libertà nazionale nel campo degli aiuti di Stato. L’ex premier italiano ha spiegato che la Commissione sta lavorando a «uno strumento paneuropeo anche in campo azionario». Secondo le informazioni raccolte qui a Bruxelles si tratterebbe di un fondo che investirebbe nelle aziende più delicate.
Il tentativo sarebbe di alleviare i Paesi con margini di manovra finanziaria meno generosi, evitare svendite di società attive in settori high-tech, o contrastare i rischi di fallimento, come ha detto ieri il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis.
In ultima analisi e più in generale, il commissario Gentiloni ha fatto notare che solo Austria, Croazia, Germania e Slovacchia avranno recuperato entro il 2021 il crollo economico. In ritardo invece saranno in particolare Italia, Spagna e Olanda.
Ripresa troppo lenta: Italia peggio di tutti nel biennio 2020-21
Il ciclone del coronavirus scalza l’Italia dall’ormai abituale ultimo posto nelle classifiche sulle performance dell’economia messe in fila dalle stime della Commissione europea. Perché nelle previsioni di primavera diffuse ieri la Grecia, con un -9,7%, quest’anno farebbe peggio rispetto al nostro Paese, dove la recessione si attesterebbe al 9,5%; cioè un punto e mezzo sotto alla previsione del governo.
Ma il primato negativo italiano è comunque recuperato nel biennio 2020-21: perché il rimbalzo dell’anno prossimo, anche se ipotizzato con uno sguardo un po’ più ottimista rispetto a quello del ministero dell’Economia (+6,5% contro il +4,7% calcolato a Roma) sarebbe troppo fiacco per far recuperare il terreno perduto. Il risultato si ottiene con un semplice calcolo sulle tabelle della commissione: a fine 2021 la Germania si riavvicinerebbe ai livelli di produzione pre-crisi (Pil 2021 al 99% di quello 2019), la Francia seguirebbe a ruota (Pil 2021 al 98,6% dei livelli pre-virus) mentre l’Italia si fermerebbe al 96,4%: peggio della Spagna (96,9%) e della Grecia (97,4%), gli altri punti deboli nell’Europa mediterranea.
Tra i tanti fattori travolti dalla crisi c’è in realtà la fondatezza dei decimali nelle stime di crescita, perché le basi su cui si fondano le previsioni sono troppo mobili per produrre cifre solide. Tanto è vero che la stessa Commissione, come ha fatto il ministero dell’Economia, ragiona su più scenari; tra i quali c’è quello di una seconda ondata autunnale della pandemia che appesantirebbe di un altro 2,5% la recessione nell’Eurozona (per l’Italia, nei calcoli Mef, la replica dopo l’estate produrrebbe un altro 2,8% di crescita negativa).
Non bastano però i decimali a chiudere la forbice con Germania, Francia e gli altri grandi della Ue. E in quest’ottica i numeri elaborati a Bruxelles sono significativi, perché indicano il cuore del problema di lungo periodo: per tornare alla situazione precedente alla crisi, tutt’altro che un Eldorado nel caso italiano, qui servirebbe più tempo che negli altri Paesi. Il recupero sarebbe insomma una maratona, non uno sprint, per di più gravata da un debito pubblico in volo al 158,9% del Pil quest’anno con un recupero al 153,6% il prossimo. Il deficit sarebbe dell’11,1% del Pil nel 2020 (6,3% strutturale) e del 5,6% nel 2021 (3,7% strutturale).
Il recupero lento non è un inedito per l’Italia, che era di fatto l’unico dei grandi Paesi Ue a non aver superato del tutto la caduta della produzione determinata dalla doppia crisi del 2009 e 2011-12. E la spiegazione, nell’analisi della Ccommissione, è la stessa. E riguarda i problemi strutturali dell’economia italiana: fra i quali il basso livello di investimenti pubblici e privati, la leva su cui ieri è tornato a insistere anche il Fondo monetario internazionale invocando un cambio di rotta urgente per Italia e Spagna.
Vocazione all’export e struttura delle imprese frammentata sono un altro fattore di debolezza in tempi di crisi simmetrica, che si fa però asimmetrica proprio per le condizioni della finanza pubblica. Che da noi non offre la possibilità di sfruttare le aperture Ue sugli aiuti di Stato con la stessa intensità che si incontra in Germania: perché il problema sono i soldi, assai più delle regole.
La sentenza della Corte tedesca non ferma gli acquisti della Bce
La Bce resta totalmente determinata ad assicurarsi che la politica monetaria sia «trasmessa a tutte le parti dell’economia e in tutte le giurisdizioni», cioè gli Stati dell’area dell’euro, operando all’interno del mandato. È questa l’indicazione prospettica scandita dalla Banca centrale europea poche ore dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha sollevato rilievi sulla parziale possibile illegalità del programma di acquisti di titoli di Stato (Pspp) nel Qe1 e Qe2.
La lotta contro la frammentazione, provocata dalla crisi della pandemia da coronavirus, resta dunque confermata dalla Bce, e con essa, implicitamente, lo strumento principe per frenare divergenze e spread: il programma pandemico Pepp, complementare al Pspp.
La Bce va dunque avanti. La sentenza della Corte tedesca non ha impatto diretto sulla banca centrale guidata da Christine Lagarde, che è un’istituzione europea soggetta alla Corte di giustizia europea: Lussemburgo, a differenza di Karlsruhe, non ha riscontrato nel Pspp alcuna illegalità rispetto a mandato e Trattato.
L’altolà dei giudici tedeschi, tuttavia, ha un impatto indiretto sull’Eurosistema, perché la Bundesbank è soggetta alla Corte di Karlsruhe, deve rispettarne decisioni e considerazioni. Così la Bce non può ignorare il fatto che senza un chiarimento entro tre mesi, come richiesto dalla Corte tedesca sul rispetto della proporzionalità del Pspp (analisi approfondita su ripercussioni ed effetti collaterali della politica monetaria in altri ambiti, economici e fiscali), la Bundesbank sarebbe costretta a uscire dal programma di acquisti, e a disfarsi nel tempo dei titoli (tedeschi) in bilancio.
È prevedibile che la Bce, mantenendo aperto il dialogo per rispetto delle istituzioni, trovi il modo quanto prima di far avere – non direttamente – alla Corte tedesca l’analisi richiesta: pubblicandone i contenuti sul sito, oppure trasferendo queste valutazioni, in realtà già fatte copiosamente in Bce, a chi spetta visionarle in Germania, Governo, Parlamento, banca centrale. La Bundesbank non commenta oltre quanto detto ieri dal suo presidente Jens Weidmann, «né sul verdetto della Corte né sulle speculazioni» che lo circonda. E Weidmann, nella sua dichiarazione, ha fatto intendere che si adopererà per fare tutti contenti, l’Eurosistema, di cui fa parte, e la Corte costituzionale, a cui deve rispondere. Un’apertura conciliante, da provarsi nei fatti, da chi in passato ha osteggiato ripetutamente l’ex-presidente Mario Draghi: chissà se la Buba si rivelerà più accomodante in Bce ora, mentre il suo Paese dice «nein» agli eurobond.
Chiuso il capitolo Pspp, questo è per ora nelle attese, la più grande sfida in futuro per la Bce riguarderà il Pepp. E i mercati la stanno attendendo al varco su quanto fino al 5 maggio davano per scontato sul programma pandemico: aumento dell’importo, allungamento della scadenza, acquisto di junk bond sovrani e introduzione del reinvestimento del capitale dei titoli rimborsati. Il Pepp ha già allentato le «salvaguardie» sulle quali ha fatto perno la Corte tedesca per convalidare la legalità e il non finanziamento diretto degli Stati del Pspp. Chi in Germania ha fatto ricorso contro il Pspp potrebbe rifarsi sul Pepp. Ma la Bce ha altri problemi più pressanti: e resta determinata con tutti i mezzi a disposizione, nei limiti del mandato, a raggiungere l’obiettivo della politica monetaria anche nel pieno della crisi del coronavirus. E nulla potrà fermarla, preventivamente.
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